Originariamente pubblicato da First Things (maggio 2015). Ripubblicato su concessione dell’autore.

Il sionismo cristiano di solito è respinto da chi lo critica per uno o più di questi tre motivi: (1) dicono elimini completamente il Nuovo Testamento, dove (si sostiene) l'attenzione dell'Antico Testamento su una particolare terra è sostituita da una visione che ha a che vedere con il mondo intero; (2) pensano sia l’unica preoccupazione dei dispensazionalisti premillenaristi, la cui teologia presumibilmente usa gli ebrei per promuovere il proprio ruolo in presuntuosi programmi sugli eventi della fine dei tempi; (3) si dice che sia più politico che teologico, legato ai partiti politici americani e israeliani di destra che identificano impropriamente l'attuale Stato israeliano con l'eschaton.

In una recente conferenza a Georgetown, alcuni studiosi hanno sostenuto la causa di un "nuovo" sionismo cristiano che adotta un approccio inedito rispetto a questi tre problemi.

Il sionismo nel Nuovo Testamento

Gli antisionisti ammettono che i profeti dell'Antico Testamento, che spesso scrivevano dall’esilio, avevano predetto un ritorno alla Terra promessa. Ma ritengono che queste profezie sul ritorno si siano avverate quando alcuni degli esuli babilonesi tornarono per ricostruire Gerusalemme verso la fine del VI secolo a.C. Tuttavia, tre studiosi del Nuovo Testamento presenti alla conferenza (Joel Willetts, David Rudolph e Mark Kinzer) hanno sostenuto che Gesù e gli apostoli abbiano dato prova di essere ancora in attesa di un ritorno futuro.

Ad esempio, quando Gesù cita la predizione di Isaia secondo cui il tempio sarebbe diventato "una casa di preghiera per tutti i popoli" (Marco 11:17; Isaia 56:1), sembra concordare, come suggerisce Richard Hays nel suo recente Reading Backwards, con la visione di Isaia di "una Gerusalemme escatologicamente restaurata", dove gli stranieri sarebbero venuti al santo monte di Dio per unirsi agli "esuli d’Israele" che Dio ha "raccolto" (Isaia 56:7-8). Hays aggiunge che l’interpretazione figurale di Giovanni del corpo di Gesù come nuovo tempio (Giovanni 2:21) "non dovrebbe essere letta né come completamente supersessionista né come ostile alla continuità con Israele." Non nega il senso letterale delle Scritture d’Israele - che il tempio era la casa di Dio - “ma lo completa collegandolo tipologicamente con la narrazione di Gesù e rivelando una più profonda verità prefigurativa all'interno del senso storico letterale." Il fatto che gli apostoli considerassero il tempio sia dimora stabile di Dio che una figura del corpo di Gesù è dimostrato dalla loro partecipazione alle liturgie del Tempio anche dopo che i capi del Tempio stesso avevano contribuito a mandare a morte il loro messia (Atti 2:46).

Questi studiosi hanno mostrato altre prove del fatto che Gesù guardasse a un futuro ritorno degli ebrei e a una Gerusalemme restaurata. Matteo scrive al capitolo 24 che quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, "tutte le tribù della terra piangeranno", citando la profezia di Zaccaria riguardo agli abitanti di Gerusalemme in lutto quando "il SIGNORE salverà prima le tende di Giuda" (Zaccaria 12:7,10). Poi in Matteo 19 Gesù dice ai suoi discepoli che "nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi, che mi avete seguito, sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele." (v. 28). James Sanders ha osservato che questi ripetuti riferimenti alle dodici tribù implicano la restaurazione d’Israele, in particolare a Gerusalemme.

Luca mostra Anna che parla del bambino Gesù "a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (Luca 2:38), e dell'aspettativa intorno a Gesù che, al suo ritorno, sarebbe stato accolto da Israel: "Io vi dico che non mi vedrete più, fino al giorno in cui direte: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore!’” (Luca 13:34,35; Matteo 23:37,39). Luca suggerisce che il ritorno sarà a Gerusalemme (Luca 21:24-28). Quando i suoi discepoli chiedono a Gesù poco prima della sua ascensione: "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?" (Atti 1:6), Gesù non mette in discussione la loro ipotesi secondo cui un giorno il regno sarebbe stato reso all’Israele fisico. Si limita semplicemente ad affermare che il Padre ha fissato la data, ma che non è loro ancora dato saperla. Sono state indicazioni di questo tipo nei Vangeli e negli Atti a spingere Marcus Bockmuehl a scrivere che "il primo movimento di Gesù ha chiaramente continuato a concentrarsi sulla restaurazione delle dodici tribù d’Israele in un nuovo regno messianico."

Paolo, Pietro e l’autore del libro dell'Apocalisse avevano simili aspettative. Paolo usa la profezia di Isaia sulla restaurazione, presente in Isaia 59, per dichiarare che "Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe" (Romani 11:26). In Atti 3, Pietro attende "i tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti" (Atti 3:21). La parola che utilizza Pietro per "restaurazione" è la stessa parola (apokatastasis) usata nella Septuaginta (che la Chiesa primitiva usava come Bibbia) per il futuro ritorno di Dio degli ebrei a Israele da tutto il mondo. Nell'Apocalisse, l'Agnello attira i suoi seguaci a Sion nella fase finale della storia (12.1), e la nuova terra è incentrata su Gerusalemme, che ha dodici porte intitolate "alle dodici tribù dei figli di Israele" (Ap 21:2-12).

Molto prima del dispensazionalismo

Altri studiosi che hanno preso parte alla conferenza hanno sostenuto che la storia del sionismo cristiano è antica quanto il cristianesimo stesso. Molti nella Chiesa primitiva, come Giustino martire, Ireneo, Tertulliano e vescovi dell'Egitto del III secolo, credevano che la fine della storia sarebbe stata incentrata su Gerusalemme, sebbene la Chiesa stesse sostituendo Israele e la sua alleanza. La terra d'Israele aveva ancora un futuro come dimora particolare, e lo aveva anche il popolo d'Israele, benché stesse per essere incorporato all’interno della Chiesa gentile. Ma questo sionismo della Chiesa primitiva si interruppe con Origene (184-254), che considerava la relazione tra il messia ebraico e la promessa della terra come incompatibili tra loro. O l'una o l'altra avrebbero potuto realizzarsi, non entrambe. Come ha affermato Robert Wilken, "Se Gesù di Nazaret era il Messia, le profezie sull'era messianica si erano già compiute, ed era compito degli interpreti biblici scoprire cosa significassero le promesse spirituali alla luce di questo nuovo 'fatto'". Così Gerusalemme "non designava un futuro centro politico, ma una visione spirituale di beatitudine divina."

Agostino chiamava certamente la terra occupata da Israele "terra santa", ma aveva spiritualizzato le promesse relative alla terra in modo simile a Origene. Una volta che l'escatologia amilleniale di Agostino fu accettata nella Chiesa medievale, con la sua affermazione secondo cui il millennio è semplicemente il regno di Cristo attraverso la Chiesa esistente, alcuni pensatori medievali videro un futuro per il popolo o la terra d’Israele. Tutte le profezie dell'Antico Testamento circa il futuro d’Israele furono interpretate come profezie sulla Chiesa cristiana dopo la resurrezione di Cristo.

Ci è voluto il ritorno della Riforma al senso letterale del testo biblico per riavere la certezza che potrebbe esserci un ruolo futuro per un Israele particolare, sia come popolo che come terra, anche quando la salvezza cristiana sarà stata offerta a tutto il mondo. Pietisti e puritani del XVI e XVII secolo, si convinsero grazie alle profezie dell'Antico Testamento e agli scritti di Paolo, che gli ebrei sarebbero tornati alla loro terra e che alla fine si sarebbero convertiti alla fede cristiana. Molto prima dell'avvento del dispensazionalismo nel XIX secolo, i protestanti di diverse Chiese avevano previsto un ruolo per una Sion particolare, in un tempo precedente alla Fine. Poi, dopo l'Olocausto e la fondazione d’Israele nel 1948, sia i teologi cattolici che quelli protestanti riconobbero in Romani 11, che l'ascesa della Chiesa non ha messo fine al patto di Dio con Israele. Dato che i teologi hanno portato nuova attenzione su quel patto, molti hanno notato che la terra ne era parte integrante.

Karl Barth (1886-1968) era tra quelli convinti che il patto di Dio con Israele fosse sempre valido, e capì anche l’importanza della terra. Barth rifiutò quasi tutti gli assiomi del dispensazionalismo. Per esempio, respinse l'idea che la Fine dei giorni dovesse ancora venire, insistendo sul fatto che fosse iniziata con la venuta di Gesù nel I secolo. Rifiutò anche l'interpretazione delle profezie bibliche come semplici predizioni in senso letterale, come l'idea che ci si aspettasse letteralmente una Grande tribolazione, o una battaglia armata tra specifiche nazioni e Israele.

Ma allo stesso tempo Barth pensava che questi errori escatologici fossero "errori nella giusta direzione." Rispettava i millenari tentativi di prendere sul serio la sovranità di Dio sugli eventi del mondo, tra cui la comparsa d’Israele come Stato-nazione nel 1948. Questa era una "parabola secolare", così come l'avvento del socialismo nella storia moderna. L'improvvisa ricomparsa di Israele era una sorta di resurrezione e del Regno di Dio. Era una "piccola luce" che testimoniava la Luce del Mondo in Gesù Cristo. La storia moderna di Israele "anche ora corre inesorabilmente" verso il futuro delle intenzioni redentrici di Dio. Secondo Barth, la rivelazione biblica indica una triplice parusia di Gesù: l'Incarnazione, la Pentecoste e la venuta escatologica di Cristo in Israele e nella Chiesa. Quest'ultima venuta è il senso di una lunga serie di profezie dell'Antico Testamento che parlano del ritorno degli ebrei alla loro terra, un tempo in cui i gentili verranno in Israele per imparare la Torah.

Ma non sono solo i teologi protestanti a giungere a un nuovo tipo di sionismo cristiano. Gary A. Anderson, insigne studioso cattolico dell'Antico Testamento a Notre Dame, ha discusso in queste pagine "sull'affermazione biblica secondo cui la terra di Canaan fu data da Dio al popolo d’Israele." La promessa "è sia irrevocabile che insoddisfatta." È irrevocabile perché è una promessa fatta da Dio. Come dice Paolo, nemmeno l'apostasia di Israele può cancellare le promesse: "sia Dio riconosciuto veritiero e ogni uomo bugiardo" (Romani 3:4).

Tuttavia, afferma Anderson, la promessa non è mantenuta. Alla fine del Tanach, c'è ancora l'esortazione: "Chiunque fra voi è del suo popolo . . . e parta [per Gerusalemme]!" (2 Cronache 36,23) Inoltre, la terra rigetta chi non ne è degno (Levitico 18:24-30). "Il diritto di Israele alla terra, anche se il risultato di una concessione divina, non è senza restrizioni." Secondo il Tanach, l'insediamento d’Israele nella terra avverrà certo soltamente nell'era messianica.

Anderson conclude che dovremmo evitare "un falso messianismo" ricordandoci che la terra è sempre "data in determinate condizioni." Tuttavia dovremmo anche ricordare a noi stessi che "l'aspetto miracoloso dello Stato d’Israele subito dopo il momento più oscuro della storia ebraica è difficile da interpretare al di fuori di un’ottica teologica."

Né perfetto né l'ultimo

Alla conferenza alcuni studiosi hanno anche suggerito che, pur ritenendo la fondazione di Israele nel 1948 un adempimento parziale della profezia biblica, si debba essere più reticenti riguardo allp stato escatologico dell'attuale Stato-nazione. Come affermato da uno studioso che ha introdotto la conferenza, "Non intendiamo dire che [l’Israele odierno] sia un sistema politico perfetto. O che non dovrebbe essere criticato per i suoi fallimenti. O che sia necessariamente l'ultimo sistema politico ebraico che vedremo prima dell'eschaton. O che conosciamo il particolare programma o schema politico che verrà prima o nell'eschaton."

Chi ha preso parola ha sollevato non solo argomentazioni teologiche ma anche prudenziali. Israele, è stato notato, è un'isola di democrazia e libertà in un mare di regimi autoritari e dispotici. Merita di essere sostenuta, soprattutto perché l'antisemitismo si diffonde in tutto il mondo. Ma lo scopo di queste argomentazioni prudenziali -politiche e legali e morali- è di sostenere una nuova argomentazione teologica in base alla quale il popolo d’Israele continua a essere rilevante per la storia della redenzione, e che la terra d’Israele, che è al centro delle promesse di alleanza, continua a essere fondamentale per gli scopi provvidenziali di Dio.

Gerald R. McDermott è un teologo anglicano che insegna al Reformed Episcopal Seminary e al Jerusalem Seminary. È editore de Il nuovo sionismo cristiano: Nuove prospettive su Israele e la terra (IVP Academic), e autore di Israel Matters: Why Christians Must Think Different About the People and the Land (Brazos Press).

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